Ha ancora senso parlare della figura del social media manager così come viene delineata?
Qualche settimana fa, ho seguito un servizio alla TV che raccontava le opportunità di lavoro nel settore digitale o, almeno ci provava.
I giovani intervistati hanno risposto ad un paio di domande che mi hanno fatto sobbalzare dalla sedia;
la prima domanda riguardava quante e quali figure professionali conoscessero nel campo del digitale, le uniche risposte sono state:
- social media manager
- influencer
- youtuber
La seconda domanda era se secondo loro occorressero determinate conoscenze professionali e tecniche per accedere a queste professioni, la risposta è stata “no”.
Lo scenario che si è delineato è quello di un grande paese come l’Italia, in cui se prendiamo gli intervistati come un mini campione statistico, non hanno alcuna conoscenza della mole di lavoro che richiede il digitale (e intendo di tutta la filiera) ed in secondo luogo che la percezione dilagante è che le barriere di ingresso a queste professioni sono praticamente nulle, non contando le immense opportunità che questo settore offre.
Allora mi sono messo dal lato delle aziende e mi sono posto alcune domande:
Perché un’azienda dovrebbe investire uno stipendio e relativi contributi per dei professionisti che in buona sostanza non sono professionisti, visto che questi lavori non richiedono conoscenze tecniche?
Se per fare il social media manager non serve studiare o quanto meno essere preparati, a che cosa serve questa figura? E perché vedo tanti annunci di ricerca di un social media manager?
Perché le aziende che funzionano investono così tanti soldi in comunicazione e marketing, con budget che crescono alla velocità della luce, proprio nel digitale?
Se gli influencer in buona sostanza fanno marchette online, senza alcun codice deontologico da rispettare, allora perché il settore pubblicitario ha sempre le mani legate da normative ben definite?
Il nodo fondamentale credo che si possa far risalire alla crisi del 2012, quando si ebbe un crollo delle agenzie di comunicazione classiche, le aziende hanno contratto gli investimenti, in favore dei “freelance”, figure ibride che in alcuni casi erano anche autodidatte, senza alcuna esperienza aziendale e conoscenze delle pratiche di comunicazione.
Queste figure, non tutte, sono responsabili della percezione che le aziende hanno o meglio, non hanno, del lavoro nel settore del digitale.
Generano così tanta confusione che oggi un social media manager lo cercano sia le aziende che le agenzie, ma se gli chiedete a cosa serva e perché lo cercano, nessuno vi saprà dare una ragione precisa e neanche una collocazione all’interno dell’azienda.
Non sanno di cosa di debba occupare di preciso, non sanno che tipi di progetti può gestire e soprattutto non sanno cosa chiedergli in fase di colloquio.
Nella migliore delle ipotesi finiranno a “postare” contenuti sulle pagine e rispondere al telefono, dopo un anno andranno via perché si riterranno non adeguatamente pagati.
Esiste anche un limbo di aziende cha ha paura di avvicinarsi alle agenzie di comunicazione o ai consulenti esperti con un buon curriculum, per via di costi che pensano essere troppo onerosi, rivolgendosi a schiere di improvvisati e pagandoli per “moltiplicare i guadagni”.
Purtroppo non funziona così, un giocatore di basket ha una media di canestri ma non può sapere ad inizio stagione quanti ne farà in una nuova squadra, viene pagato per la sua esperienza e per le sue prestazioni ragionando sempre nell’ottica di un obiettivo; anche chi lavora nel digitale viene pagato o almeno dovrebbe, per la prestazione professionale;
non può certo moltiplicare il budget investito a priori, se fossimo capaci con certezza di fare questo lo faremmo per noi stessi non per chi ci assume o ci sceglie.
Bisognerebbe fare più chiarezza in Italia su questo settore, a partire dalle barriere di entrata, questo migliorerebbe sia la domanda di professionisti ma soprattutto l’offerta, a beneficio di tutti.