In una società in cui è sempre tutto più immateriale il paradosso è che la corsa è sempre più verso il non possesso, ed alla fine ne siamo posseduti.
Dalla musica alla nostra memoria, tutto è sempre più cloud, sempre più immateriale, storie virtuali condensate in account sparsi in giro per la rete, c’è stato un tempo in cui si attendeva la pubblicazione dell’ultima fatica di un gruppo rock, per acquistarla, possederla, ascoltarla e con un po’ di fortuna farsela autografare, oggi la musica non si possiede, non si scarica, si ascolta, senza neanche più dover faticare a trovare la propria si va per playlist.
La partita dei grandi da tempo si gioca sui big data, sulla collezione delle informazioni che riguardano la vita di una persona, dov’è stato, cosa gli piace, cosa legge, cosa ascolta, perché è da queste informazioni che è possibile prevedere dove andrà, cosa potrebbe piacere e così via. Sempre più spesso si assiste a fusioni, acquisizioni, alla basa c’è sempre quel tesoro costituito dal pacchetto utenti e dalle loro storie.
La disruptive innovation ci ha sostanzialmente trasformato in creatori di dati, dati collezionabili che servono ai brand per capire cosa venderci e sempre più spesso cosa produrre; le nuove tecnologie aiutano a creare ed alimentare uno spazio individuale in cui si elabora una versione ideale di sé. Non possediamo nemmeno più il denaro, anche quello diventa sempre più “moneta digitale” dal conto in banca, passa per un account paypal o google wallet per finire in uno store online.
Anche i modelli televisivi si adeguano con l’avvento della web TV, la fruizione di contenuti si articola online seguendo schemi delineati secondo TAG declinati per generi, attori, visualizzazioni, critica etc; non è più quindi necessario “possedere” un televisore poiché la fruibilità è assicurata su tutti i vari dispositivi. Vi è quindi una forte spinta verso un consumo smodato dei contenuti, che vengono bruciati senza possiblità di reale assimilazione, poiché la tecnologia impone velocità, tutti gli aspetti che ruotavano intorno ad una produzione, dalla musica al cinema vengono messi in secondo piano; ascoltando un brano di una playlist non è possibile ad esempio conoscerne autore, o il testo che sono contenuti nel booklet, se un tempo la diretta televisiva imponeva di guardare un programma o un film per non perderne nulla, oggi la tv digitale permette di mettere in pausa qualsiasi tipo di trasmissione, e riprenderla anche a giorni di distanza, frazionandone il contenuto ed alterandone l’assimilazione.
Non si possiedono più oggetti, ma si possiedono possibilità, accessi che a loro volta tramite cookie, newsletter e notifiche push (quelle sul cellulare e sui tablet) a loro volta ci indicano tante altre posibilità, consigli, incatenandoci alla catena di consumo, sfruttando i nostri gusti, le nostre abitudini, per “prevenire” il nostro futuro.
La partita quindi continua e continuerà a giocarsi sui big data, le aziende sanno che attraverso quelli si può accedere ad importanti volumi di vendita, perché sono la risposta a cosa vogliono gli utenti, i pacchetti di dati possono anche essere “scambiati” tra aziende che forniscono prodotti e/o servizi complementari, un’azienda come netflix che fornisce un serviziodi tv digitale ha tutto l’interesse a inviare una campagna e-mail a chi è abbonato ad un servizio di connessione ad internet, e viceversa un provider di connessione può essere interessato a fare lo stesso per aggredire utenti dei competitor.